10 marzo, 2008

Chiunque indaga il dentro e il fuori

“Chiunque indaga quattro cose, meglio per lui se non fosse mai venuto al mondo: ciò che è sopra, ciò che è sotto, ciò che è davanti e ciò che è dietro”, così dice la Mišnah. La singolarità della tristezza di questa frase però viene da altrove: non dal fatto che si cerchi qualcosa, ma dal come la si cerca – precisamente da quale direzione si intraprende.
“Apri il tuo spirito, e l’occhio del tuo spirito sulle otto dimensioni del Mondo: il settentrione e il meridione, l’oriente e l’occidente, il sopra e il sotto, il dentro e il fuori”, dice Abhinavagupta nel suo Mādhyamyakārika, le Stanze del Cammino di Mezzo. Non si conoscevano, l’indiano e l’ebreo che parlano di questi modi di conoscere, o di tacere sulla conoscenza.
Allora in questi giorni e mesi ed anni in cui la banalità si posa incessantemente sui nostri occhi, e sui nostri cuori, pare avverarsi la battuta di scena che Rostand nel suo Cyrano de Bergerac mise in bocca al Conte de Guiche mentre conversa con Rossana nel giorno in cui Cyrano morirà, da lì a poco, svelando il suo amore senza scopo.
“Vedete, Rossana, quando troppo si è riusciti, nella vita/ si sente – niente avendo fatto di male –/
mille piccoli disgusti di sé stessi, il cui totale/ non fa un rimorso, bensì un’angoscia oscura:/ e il mantello del conte trascina, nella lordura/ mentre sale lo scalone d’una nobile grandezza,/ un brusio di illusioni e rimpianti d’amarezza/ come quando, salendo lenta queste porte,/ il vostro abito a lutto con sé porta delle foglie morte”.
Conoscere qualcosa porta grigiume, porta secca desolazione, finchè non si ha il coraggio di prestare fede alla qualità: non importa ammassare onorificenze sul cammino – tanto nessuno sarà capace di conoscere ogni cosa, e non vale nulla sapere due o tre concetti in più o in meno. Sapere, cioè “avere sapore” di qualcosa, “essere percepibili al gusto”, come fanno i bambini che per conoscere usano la bocca e la lingua, non tanto gli occhi o le orecchie.
Allora, ancora e di nuovo, cadere nel grigiume triste e consapevole del Conte de Guiche, innamorato imbelle di Rossana, o nella remota pazzia di Cyrano, innamorato fedele e senza scopo, innamorato suicida, significa amare una conoscenza che si fa veleno: Rossana cade presto in un inganno, che è quello degli occhi – si innamora di una marionetta, il bel Cristiano, bella e vacua; e lascia il Potere, de Guiche, e lo Spirito, Cyrano. Eppure nessuno dei due è capace di smagarla, di farla uscire dal sortilegio degli occhi, per farla entrare a conoscere “il dentro e il fuori”, con la bocca, il senso della sapienza. Il bacio di Cristiano tocca solo la carne: ma quella bocca di Rossana non sarebbe capace d’altro, in effetti.
“Dove sono i generali, che si fregiarono nelle battaglie, con cimiteri di croci sul petto? Dove i figli della guerra, partiti per un ideale, per una truffa, per un amore finito male? Hanno riportato a casa le loro spoglie nelle bandiere, legate strette perché sembrassero intere”. Chi combatte la battaglia di Cyrano e di de Guiche ha lasciato che la sua tristezza prendesse il sopravvento, e si è frantumato disperdendosi: è la forza di chi non ha speranza, quella di non diventare nulla spargendo sé stesso nel Mondo, disseminandosi.
Eppure per conoscere il dentro e il fuori delle cose si devono moltiplicare i frammenti, ma anche riconnetterli: sparsa animae fragmenta recolligam, “raccoglierò i frammenti della mia anima, buttati qua e là”, dice Petrarca parlando dei suoi versi per Laura – altro amore senza destino, altra triste conoscenza solo di una parte, o il dentro o il fuori e non ambedue.
Ma non c’è modo di sottrarsi al fallimento: è inutile prendersi in giro, e sperare di esser capaci di comprendere tutto – meglio non essere venuti al mondo; o decidere di accettare il saggio, vale a dire la prova, non la certezza della conoscenza. Che la prova almeno, sia buona.
“Pur tu, solinga, eterna peregrina,/ che sí pensosa sei, tu forse intendi, questo viver terreno,/ il patir nostro, il sospirar, che sia;[…] E tu per certo comprendi/ il perché delle cose, e vedi il frutto/
del mattin, della sera,/ del tacito, infinito andar del tempo./ Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore/ rida la primavera”.
Sapessimo anche noi cos’è la primavera!
Sapessimo anche noi di primavera, avessimo anche noi il sapore della stagione che finisce presto e arriva tardi! Eppure aprile è il mese più crudele, quello che sfoglia i lillà e dice addio al nontiscordardime…

Mosé

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