14 giugno, 2008




Cromie postmoderne in
Gianfranco BEVILACQUA
Negli anni cinquanta e sessanta, un tempo ormai storico, artisti oggi etichettati come materici hanno rivoluzionato, intenzionalmente o di fatto, l’antica maniera di fare arte, immagine, manufatto artistico. Wols e Dubuffet, Pollock e Fautrier, l’italiano Burri, interpreti dell’Informale più sentito e rigoroso, hanno operato, un netto distacco dalla tradizione figurativa: il quadro, per restare alla pittura, non come immagine d’altro, ma come luogo in cui la materia – per lo più materiali vili, sacchi grezzi, plastica ed altro – da immagine di se stessa. “Il quadro – scrive uno storico - consiste proprio nella materia in cui è costruito, in quanto dotata di una sua intrinseca espressività visiva e cromatica”. Lo stesso Lucio Fontana, che per altro verso anticipa il Concettuale, pur abbandonando la componente materica del colore, con il suoi tagli opera un gesto finalizzato a creare sulla tela o della stessa tela una nuova immagine-realtà.
Ma, di questo passo, i sopravvenuti concettuali degli anni settanta ( i fautori dell’Action Painting), sono andati aldilà dello stesso gesto intenzionale e creativo, volto ad una modulazione spaziale della superficie (si pensi al modulare segno di Capogrossi) per approdare negli anni successivi ad una operazione dagli esiti discutibilmente estetici e certamente di poca o scarsa valenza artistica. Sino ad incorniciare ed esporre come “opera d’arte” qualsiasi manufatto preesistente al gesto, qualsiasi scoria del tempo vissuto, qualsiasi muro sbrecciato, macchiato, corroso, dal tempo o ...dal piscio di un cane. Dopo molti decenni si tornava al grado zero, aniconico del Dada inizio secolo, all’abbandono del quadro come opera e, tutto sommato si condannava l’artista all’afasia o, come ancora talora avviene, ad operazioni di ormai banali quanto pretenziose reificazioni di manufatti ripescati dal robivecchi o dalla discarica. Tanto vale cambiare mestiere, come onestamente ammettevano alla fine del loro percorso gli stessi dadaisti.
Parallelamente è sopravvissuta una tradizione figurativa che, pur modificando e rinnovando i suoi mezzi espressivi, pur talora operando una semplificazione pop-iconica del manufatto d’arte, ha comunque operato un recupero dell’immagine oggettuale. L’opera d’arte come immagine costruita o reiventata, segno intenzionale e significante. E’ certamente il caso di Gianfranco Bevilacqua, artista che negli studi e nel vissuto di più decenni di ricerca e di attività ha rimodulato in proprio le molteplici esperienze dell’arte moderna e contemporanea, per esprimersi – con indubbia originalità ed efficacia – in poetiche cromie visivo-materiche. Stupendo esempio di come un’artista definibile postmoderno utilizzi creativamente il medium cromatico, acrilico, olio, vernice che sia. Addensato, corroso, raggrumato quanto basta perché venga percepito, se si vuole, con gusto materico, ma in realtà ‘consumato’ ad opera di una intenzionalità poetica ed estetica. Per significare, per dare immagine sensoriale ad un approdo visivo-emozionale. In una efficace operazione di astrazione lirica, supportata da una sicura e produttiva maestria tecnico-costruttiva, Bevilacqua sovrappone a cromie paesagistiche di prima stesura sensazioni, impressioni visivo-eidetiche, interiorizzazioni del vissuto autobiografico, espansioni della memoria, il desiderio di autoproiettarsi nell’immagine, oltre l’immagine.
Un’immagine frantumata per così dire a livello molecolare, frazionata e scomposta su piani di lettura e di vissuto in una interazione pendula, simbolica del dentro e del fuori, dell’al di qua e dell’al di là. Una visione cosmogonica, addensata sui permeanti neri, con improvvisi squarci di vivida luce, raggrumata da brucianti, lavici coaguli d’angoscioso spaesamento, infine protesa su fughe d’azzurro, verdi riposanti distese.Coniugando esemplarmente arte e vita, il reale e la sua immagine, Gianfranco Bevilacqua ci mostra il suo mondo immaginifico, la traccia formale di un uomo che attraversa, inquieto, ma sempre più fiducioso (Sereno verrà, è il titolo di una sua opera), il suo e il nostro tempo. Giuseppe F. Pollutri (agosto 2000)

Nessun commento: