09 maggio, 2008

Lucia Arsì sull'Orestiade


Siracusa frequenta il Teatro greco perché sa di non sapere.

Impressioni di Lucia Arsì sull’imminente evento che coinvolge la nostra Città: l'Orestiade

Stamani, nell’ambito del Convegno sul XLIV° ciclo di Rappresentazioni Classiche, nel salone dell’Inda abitato dagli eminenti frequentatori del mondo greco, ho conosciuto e ascoltato il regista dell’Orestea, Pietro Carriglio. Scorgo un uomo che definirei normale per l’attività che svolge:lunghi e sfidanti capelli bianchi, cipiglio austero, voce roca, accento siculo. Poi, solo dopo qualche minuto, la ri-velazione. Tenerezza, ansie, paure, la preoccupazione che è propria di chi sa di non sapere ( guai se pensasse di possedere in toto la verità!).Ed è riuscito a trasmettermi le sue emozioni.“ Non vi aspettate troppo- ha dichiarato- sono convinto che potrei fare bene Eschilo, ma dopo”. Dopo aver attraversato in lungo e in largo le parole del grande tragediografo, che lo ha condotto nel tortuoso percorso del labirinto della vita, ove la luce è accompagnata dal dolore in modo persistente, il regista denuncia la sua perplessità a dare forma al mistero della vita, a tale rito perpetuo che tocca l’essenza di ogni uomo, gli offre il senso del suo essere qui anche se non lo aiuta a risolverlo. Il rito del resto, presente nella nostra Città come culto e come mito, diventa sistema, forma religiosa, transito verso l’altrove e la comunità, che partecipa intensamente all’esperienza drammatica e religiosa della morte, ne ottiene passaporto di salvazione. Si salva chi sa, sa che tutti siamo limitati e transeunti. E chi soffre, colui che vive il pathos (inteso come esperienze emozionali che vagolano nel cosmo ove la energia primaria è l’ordinato logos) sa. E scopriamo dalla poesia di Eschilo (l’autore di Derveni, in un frustolo, afferma che poiesis è legein e didaskein, ossia l’agere cultuale usa un dire che è insegnamento) che vendetta e giustizia seguono lo stesso binario, dato che l’uomo usa la violenza, opera il male, sacrifica ciò che di più importante custodisce (il padre sacrifica la figlia, la moglie il marito, il figlio la madre, etc) in un attimo di partecipazione cosmica con l’indifferenziato (il sacro), e poi, poi attende un tribunale giusto che lo aiuti a tornare in sé, ed è la giustizia che sa comporre la coscienza virile apollinea (prima esageratamente maschilista nell’affermare che la donna è un semplice contenitore) con la tenerezza emotiva del femminile rappresentata da Atena, in cui immagino la maternità della Madonna (al modo dell’eminente prof. Petersmann, venuto a Siracusa nell’anno 1990 ad intrattenerci sull’Orestea con la dolcezza e la religiosità che caratterizzano il Dirigente della scuola gesuita di Heidelberg ). Possibile scollarsi da quella casa infetta e grondante sangue? No, rispondo decisamente. Dato che gli Atridi rappresentano e ripropongono l’immagine primaria, il paradigma del nostro essere in questo mondo. La lex talionis vige tuttora nella nostra isola. La vendetta mafiosa resiste. E il tribunale con le sue leggi sante nasce per ri-vendicare il ruolo del carnefice. La differenza sta nella vendetta ordinata, regolata, misurata. Il nostro teatro, echeggiando tali dolorosi eventi che impregnano l’uomo da sempre e per sempre, sa che nulla cambierà, sa anche che illuminare le coscienze ne vale la pena. La morte-spettacolo non ci appartiene. Ora tutti a teatro, per emozionarci, per sentire la frequenza dei nostri battiti mentre il dolore ci attanaglia!



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