14 maggio, 2008

Se potessi avere tre lettere senza raccomandazione

La vecchia canzone intitolata “Mille lire al mese” da più parti è stata criticata per il suo essere uno specchio di una Italietta, che avrebbe portato, di lì a qualche anno – da un lato al “borghese piccolo piccolo”, capace di vendere l’anima per ottenere il posto fisso per il figlio, un padre pronto a buttarsi a capofitto in giochi – massonici – molto più grandi di lui; un padre pronto a divenire un “uomo fidato” e a cambiare partito politico cercando di interpretare il cambio di giornale – l’Unità o il Corriere della Sera – da parte del capoufficio. Dall’altro al borghese senza dignità, il Ragionier Ugo Fantozzi, punito per la sua intima renitenza all’autodeterminazione, per la sua incapacità di ribellarsi efficacemente, e in fondo per il suo “amore per il carnefice” che ha ispirato tanta psicologia spicciola e da ombrellone.

Qualcuno dovrebbe pur fermare l’ondata di leziosità e scemenze che si dicono intorno a chi cerca un lavoro – magari tale da poter consentire una qualche base per costruire e portare avanti dei progetti, senza pretese.

In realtà bastano solo tre lettere per ottenere un lavoro.

Nessuna di queste, fra l’altro, indugia verso la pratica italiota della raccomandazione – italiota, perché meridionale, certo; queste cose al Nord, non accadrebbero mai se non ci fossero… Insomma, se non fossero arrivati dal Sud… Beh, credo sia chiaro quale sia il neo del Nord in tutto il suo candore.

Tre lettere all’apparenza misteriose, forse al primo sguardo tanto innocue da sembrare cadute lì da chissà quale errore di tastiera: “p r k”.

Gli amanti degli enigmi non sciolgano il dubbio con le vecchie sigle, modellando un “Partito Repubblicano Kombattente”, memore di un ben più triste “Partito Komunista Kombattente” che si è macchiato di stragi e sangue. Qui il sangue non c’entra, anche se la Repubblica potrebbe invece entrare nel discorso.

“Prk” – per la precisione pk, tanto per non scontentare nessuno – è la radice indoeuropea di una voce latina che si chiama “prex”. Se il termine non dice nulla, vuol dire che bisognerebbe tornare alla messa in latino, e risentire le “preces” del rosario, e il “Precor, Deus meus”, che si intonavano fino al Concilio dentro le chiese.

Il fatto è che “prex” è la madre – in molti sensi – dell’aggettivo “precarius”: la “preghiera” infatti si riferisce anche a quelle cose che “si ottengono con le preghiere”; e per questo sono appunto precarie.

Dunque se uno spazio è piccolo da gestire e la convivenza difficile, sarà detto “precario”, come un equilibrio pronto a disfarsi, pronto a evolvere verso una caduta; e per questo motivo, anche un andamento zoppicante, a scatti e senza possibilità di prevedere una certa regolarità, sarà definito precario. Non si prevede bene nulla, se la regolarità dell’erogazione è affidata a qualcosa di instabile e destinato, forse, a mancare.

Insomma, le raccomandazioni, per il lavoro, non servono: bastano le preghiere.

Mosé

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